venerdì 9 novembre 2007

PAOLO BOZZI - Un mondo sotto osservazione



PRESENTAZIONE di Luca Taddio

«Dio mi ha costretto a stare da questa parte, tra i fenomeni; il resto dunque me lo devo immaginare. Fingete che il mondo dell’esperienza sia come effettivamente è; poi se ne parla». P. Bozzi

Paolo Bozzi è stato un pensatore eclettico, di grande originalità e coerenza speculativa: psicologo sperimentale, continuatore e innovatore della tradizione gestaltista, ma anche violinista, autore di racconti e aforismi e infine, come il lettore potrà notare leggendo questo libro, geniale filosofo.
Fu autore sfuggente, refrattario alla notorietà e alle logiche accademiche, poco propenso a pubblicare i risultati delle proprie ricerche. «L’Accademia – recita un suo aforisma – è l’organo con cui la società si difende dalle idee».
Imparare ad osservare il mondo: coloro che hanno conosciuto Bozzi hanno appreso grazie a lui la capacità di guardare le cose «così come appaiono», indipendentemente dall’uso che possiamo farne, dai nostri pregiudizi e dalla conoscenza che deriva dal pensiero scientifico che gravita attorno alle «cose». «Lui – scrive Claudio Magris – mi ha insegnato a vedere la realtà, a prestare attenzione non solo alle idee, ma pure alle cose. Senza di lui […] probabilmente non avrei scritto Danubio o Microcosmi» .
A metà degli anni cinquanta si laureò in filosofia a Trieste con una tesi sul pragmatismo, dove prese in esame Peirce e James ma anche il pensiero degli italiani Vailati e Calderoni; in questo periodo conobbe lo psicologo gestaltista Gaetano Kanizsa, la persona che maggiormente influenzò il suo percorso scientifico. Affrancatosi dall’insegnamento di stampo idealistico gentiliano, che gli era stato impartito nel primo periodo di studi universitari, si dedicò alla lettura di filosofi inglesi come Moore, Russell e Austin e neopositivisti come Schlick. Nel 1958 Bozzi iniziò a collaborare con Kanizsa come assistente a Trieste, conducendo le sue ricerche pioneristiche sull’isocronismo del pendolo. «Mi accadde – racconta Bozzi – di osservare che le oscillazioni di un pendolo possono apparire “troppo rapide” o “troppo lente” o “naturali”, e mi sembrò di scoprire in questo fatto un sottile filo tra la meccanica di Galileo e quella di Aristotele» . Tali studi lo condussero ai primi lavori di fisica ingenua, oggi meglio conosciuta come Naive Physics.
Da Kanizsa apprese le sottigliezze metodologiche della ricerca sperimentale, in un ambiente dove, come egli stesso ricorda, sebbene ufficialmente venisse adottata una versione ortodossa della teoria della Gestalt, nella pratica «la discussione teoretica era molto scoraggiata come superflua», privilegiando invece la pura osservazione dei fatti . L’arte di Kanizsa consisteva nel sottoporre ai soggetti sperimentali delle strutture visive, «agendo fenomenicamente su un fatto fenomenicamente esplicito», per poi modificarle sistematicamente al fine di ottenere effetti percettivi inaspettati e «paradossali». Quantificazione e misura erano utilizzate solo lo stretto necessario. Ciò che contava era la scoperta, mentre l’esperimento, concepito come controllo di ipotesi, passava in secondo piano. L’operare di Kanizsa si basava su un continuo ricorso al procedimento chiamato percept-percept coupling, secondo il quale «una proprietà fenomenica agisce su un’altra proprietà fenomenica direttamente e visibilmente, quale che sia l’immaginabile stato dei relativi stimoli» . Nel suo modo di procedere non erano in gioco stimoli e percezioni, ma inferiora e superiora «ontologicamente complanari», metodo che avvicinava Kanizsa alla scuola di Graz di Meinong e Benussi (maestro di Musatti che a sua volta fu maestro di Kanizsa). Bozzi, profondamente influenzato da questo metodo, tradusse in termini teorici il lavoro svolto quotidianamente da Kanizsa. «Negli anni successivi ho lavorato in direzione di un monismo realistico sempre più accentuato e intransigente, che però contiene tutto quello che ho imparato da Köhler e discusso con Metzger» .
Fu un instancabile lettore dei classici del pensiero scientifico e filosofico, che nella lettura di Bozzi venivano trattati come se fossero dei contemporanei; ciò gli permetteva di confrontare le idee e i fatti in maniera sincronica. La sua spiccata vocazione per la teoresi gli permetteva di trattare gli autori del passato come pensatori con cui dialogare su fatti di percezione quotidianamente ricorrenti, anziché considerarli come antiquati filosofi ingrigiti dal tempo. Galileo, Hume, Peirce e James diventano così dei colleghi con i quali confrontarsi in maniera proficua: possiamo scoprire, per esempio, la «maraviglia» suscitata dall’isocronismo del pendolo esattamente come al tempo la notò Galileo. «Ritengo possibile andar a osservare i fatti – scrive Bozzi – tutte le volte che un testo del remoto passato rimanda esplicitamente all’osservazione». Refrattario alle mode scientifiche del momento, fu uno «tra i pochissimi a credere che l’impianto teoretico dei gestaltisti classici appartiene più al futuro della psicologia della percezione che non al suo passato; e che molte delle debolezze della percettologia d’oggi dipendono dal fatto di non aver né capito né letto i testi classici della Gestalttheorie» . Secondo Bozzi, l’atto percettivo non è determinato dall’esperienza pregressa ma è autonomo rispetto all’attività del pensiero e consiste nell’osservazione diretta del mondo esterno: i fenomeni hanno il carattere della dura realtà delle cose incontrate nel mondo, essi sono ostensibili, interosservabili e, attraverso il metodo fenomenologico sperimentale, ripetibili. La percezione diretta del mondo è per Bozzi anche indipendente dal nostro linguaggio, dalle idee e dai concetti; Wittgenstein, in un passo spesso citato da Bozzi, afferma che «interpretare è un’azione» mentre «vedere non è un’azione ma uno stato».
Poco incline all’adottare lo stile standardizzato richiesto dalle riviste scientifiche, prediligeva una prosa scientifica sorvegliata e attenta, dai tratti spesso letterari. Questa scelta stilistica derivava probabilmente dalla volontà di rendere la descrizione funzionale non tanto alla logica della quantità, quanto piuttosto a quella della qualità dell’apparire fenomenico. Si trattava della ricerca di una continuità tra il piano autonomo dell’osservazione, la descrizione dei fatti e la teoria. Tale continuità può forse essere estesa alle sue opere artistiche e letterarie. Bozzi imprimeva questo stile espositivo anche alle sue lezioni, le quali apparivano al contempo colloquiali e rigorose. Sempre attento a evitare un gergo specialistico ritenuto sterile e superfluo, preferiva attingere alla ricchezza del linguaggio comune, non temendo l’utilizzo espressivo, ma calibrato, di forme dialettali.
Bozzi insegnò a Trieste, Padova, Trento e di nuovo a Trieste; fu autore di importanti testi come: Unità identità causalità (1970), Fenomenologia sperimentale (1989), Fisica ingenua (1990), Experimenta in visu (1993), Vedere come (1998) e anche della biografia del violinista e compositore goriziano Rodolfo Lipizer (1997). Un mondo sotto osservazione è il titolo che abbiamo scelto per raccogliere la gran parte degli articoli di Bozzi appartenenti agli anni novanta. Il progetto di una «scienza degli osservabili in atto» iuxta propria principia prevede come metodo la fenomenologia sperimentale e come base teorica il monismo realista. La fenomenologia sperimentale si configura come «una sorta di etologia degli oggetti e degli eventi», epistemologicamente indipendente da presupposti fisiologici. Questa indipendenza comporta per Bozzi che ogni spiegazione causale della percezione, dall’oggetto fisico fino al cervello, sia considerata una condizione sufficiente ma non necessaria alla percezione fenomenica. Il genio maligno immaginato da Cartesio potrà farci dubitare della necessità del dato causalmente inteso, ma non del dato fenomenico in quanto tale. Se il metodo di ricerca è tassativamente fenomenologico, il realismo è presentato come un «optional»: si può fare ricerca anche essendo dualisti, ma è filosoficamente che il realismo monistico d’ispirazione machiana di Bozzi va compreso in tutta la sua portata teorica. Il suo progetto di una «scienza del mondo esterno» e le sue argomentazioni in difesa del realismo sono tra i contributi più originali della filosofia contemporanea.
La raccolta di scritti che presentiamo mostra l’originalità del pensiero di Bozzi sia come psicologo che come filosofo: due aspetti non scindibili che hanno accompagnato tutto il suo lavoro. Infatti la sperimentazione è, per quanto decisiva, solo una parte del suo discorso, ricco di intrecci e legami con problemi classici della filosofia della conoscenza e della «ontologia», sui quali ha gettato nuova luce. Un mondo sotto osservazione rappresenta una sorta di testamento filosofico del monismo realista di Bozzi. La maggior parte degli articoli che raccogliamo in questo volume sono stati pubblicati singolarmente e sono circolati all’interno di ambienti ristretti e specialistici. Il libro si apre e si chiude con dei brevi racconti, a simboleggiare il filo rosso del pensiero di Bozzi che attraversa il piano scientifico, filosofico e letterario.

***

“In questi studi Bozzi mostra non come è fatto il mondo, ma come noi lo percepiamo, come arriva al nostro occhio, alla nostra corteccia cerebrale, alla nostra mente e al nostro cuore; cosa succede quando le cose, i colori, i movimenti, la vita intorno a noi entrano in noi e diventano oggetto di esperienza, di classificazione, di amore o di rifiuto. Tutto questo diviene
letteratura – un’ affascinante, zingaresca e precisa letteratura”. - Claudio Magris

“Muovendo proprio dalla certezza sensibile, la vittima preferita della filosofia, Paolo ha combattuto la sua lotta filosofica a favore di una rifondazione dell’esperienza, una lotta che può apparire impari solo se si concepisce la filosofia
come una battaglia tra ombre e teorie, e non anche tra osservazioni minute ed esatte, tratte dall’inesauribile sfera della percezione. Giocando da outsider e con altri materiali, ha toccato il nocciolo della questione. L’anomalia non è
così grande: un ingegnere, Carlo Emilio Gadda, ha rinnovato la letteratura italiana del Novecento. Uno psicologo, Paolo Bozzi, ne ha ringiovanita la filosofia”. - Maurizio Ferraris

Scritti sul realismo è il frutto dell’ultimo, intenso, decennio di riflessione di Paolo Bozzi e rappresenta così il condensato del suo testamento filosofico. Il volume, inedito, raccoglie una serie d’importanti saggi elaborati durante gli
anni novanta, in cui lo psicologo affronta cruciali problemi a cavallo tra scienza e filosofia seguendo l’approccio anti-psicofisico e la fenomenologia sperimentale iuxta propria principia che aveva da sempre contraddistinto il suo
originale e rigoroso programma teoretico. Alcuni aforismi e racconti che aprono e chiudono il volume sono proprio tesi a ricordarci, nella loro lucida intelligenza, la ricchezza d’interrogativi e di temi filosofici che è possibile dispiegare tramite
la semplice osservazione del mondo esterno.

Paolo Bozzi (1930-2003), psicologo sperimentale formatosi a Trieste con Gaetano Kanizsa, dopo aver insegnato psicologia presso le università di Padova e di Trento, è stato fino al 1999 professore ordinario di Metodologia delle scienze del comportamento alla Facoltà di Psicologia dell’Università di Trieste. Musicologo, padre della “fisica ingenua”, allievo di Rodolfo Lipizer per il violino, ha pubblicato Unità, Identità, Causalità (Cappelli 1969), Fenomenologia sperimentale (Il Mulino 1989), Fisica ingenua (Garzanti 1990), Experimenta in visu (Guerini 1993), Vedere come (Guerini 1998) oltre che Rodolfo Lipizer
nei miei ricordi (Studio Tesi 1997).

SLAVOJ ŽIŽEK- L'universo di Hitchcock. A cura di Damiano Cantone

In uscita a Marzo

giovedì 8 novembre 2007

Il cinema come falso movimento di Alain Badiou

È possibile affermare un pensiero del cinema partendo dalla nozione di immagine? Di immagine in movimento? Di quella che precisamente Gilles Deleuze ha chiamato l'immagine - movimento?

Tutto sta, a me pare, nel ritenere che la realtà del cinema siano i film, le operazioni convocate nei vari film. Come non c'è poesia senza che vi siano dei poemi, così non c'è cinema senza i film. E un film non è la realizzazione delle categorie, anche materiali, presupposte. Categorie come immagine, movimento, inquadratura, fuori - campo, trama, colore, testo, e così di seguito. Un film è una singolarità operazionale, essa stessa colta nel processo denso ed unanime di una configurazione d'arte. Un film è un punto - soggetto per una configurazione.

Questo soggetto, come ogni soggetto, deve innanzitutto pensarsi come operazione di sottrazione. Un film opera tramite ciò che toglie, l'immagine vi è soprattutto occultata. Il movimento vi è impastoiato, sospeso, rovesciato, arrestato. Più essenziale della presenza è il taglio, non solamente per l'effetto del montaggio, ma anzitutto e per lo più per effetto della "messa-in-inquadratura" e del filtraggio controllato del visibile. Al cinema importa che i fiori che vengono mostrati, come in quella sequenza di Visconti, siano fiori mallarméiani, che si neghino ad ogni profumo. Li vedo, quei fiori, ma è proprio dal taglio che li determina, che nasce, inscindibilmente, la loro singolarità e la loro idealità.

Tutta la differenza rispetto alla pittura consiste nel fatto che non è il vederli che ne fonda l'Idea nel pensiero, ma l'averli visti. Il cinema è un arte del passato perpetuo, nel senso che il passato è istituito dal passato. Il cinema è Visitazione: l'Idea di ciò che avrei visto o compreso, permane in quanto passa. Organizzare il passaggio dell'Idea con il tocco leggero intrinseco al visibile, ecco l'operazione del cinema, in cui sono le operazioni proprie di un artista a creare le possibilità .

Così il movimento, al cinema, deve essere pensato in tre modi differenti. Da una parte, rapporta l'Idea all'eternità paradossale di un passaggio, di una Visitazione. C'è una strada, a Parigi, che si chiama "le passage de la Visitation", potrebbe essere chiamata la via del cinema. Si tratta qui del cinema come movimento globale. D'altra parte il movimento, per delle operazioni complesse, è ciò che sottrae l'immagine a se stessa, ciò che fa sì che sia trascorsa, sebbene inscritta. Perché è nel movimento che si incarnano gli effetti di taglio. Soprattutto, come si vede in Straub, quando l'arresto apparente del movimento locale mostra l'evidenza del visibile. O, come in Murnau, quando è l'avanzare di un tram che organizza la topologia segmentata di un faubourg ombreggiato. Diciamo che qui si hanno degli atti di movimento locale. Infine, il movimento è circolazione impura attraverso la totalità delle altre attività artistiche, esso accoglie l'Idea con l'allusione che contrasta, mediante un processo di sottrazione, con le arti, strappate alla loro destinazione.

È infatti impossibile pensare al cinema al di fuori di un sorta di spazio generale in cui si evidenzia la sua connessione con le altre arti. È la settima arte in un senso del tutto particolare. Non dispone sullo stesso piano delle altre sette, le implica, è una in più delle altre sei. Opera su di loro, a partire da loro, tramite un movimento che le sottrae a loro stesse.

Domandiamoci per esempio cosa deve al Wilhelm Meister di Goethe Falso movimento di Wim Wenders. Abbiamo qui un romanzo e del cinema. Ammettiamo necessariamente che il film non esisterebbe, o piuttosto non sarebbe esistito, senza il romanzo. Ma qual è il senso di questo rapporto di condizione? O più precisamente: secondo quali modalità proprie al cinema è possibile questa azione romanzesca su di un film ? Questione tortuosa, difficile. Si vede bene che siamo in presenza di due operazioni: che ci sia un racconto, o una traccia di racconto; che ci siano dei personaggi, o allusioni ai personaggi. Per esempio qualcosa opera nel film, filmicamente, come eco del personaggio di Mignon. tuttavia, la libertà della prosa romanzesca è di non mostrare alla vista i corpi, la cui visibile infinità sfugge alla più fine delle descrizioni. Qui, il corpo è dato dall'attrice, ma "attrice" è un espressione teatrale, una parola propria alla rappresentazione. Ecco che già il cinema strappa il romanzesco a se stesso prendendo dal teatro. Ora si nota facilmente che l'Idea filmica di Mignon si colloca precisamente, per una certa parte, in questo strappo. È posta tra teatro e romanzo, ma, allo stesso tempo, "né nell'uno, né nell'altro", per cui tutta l'arte di Wenders consiste nel mantenere il passaggio.

Se ora chiedo cosa deve Morte a Venezia di Visconti a Morte a Venezia di Thomas Mann, eccomi trascinato in direzione della musica. Perché la temporalità del passaggio è dettata, pensiamo alla sequenza d'apertura, più per l'adagio della quinta sinfonia di Mahler che per il ritmo prosodico di Thomas Mann. Supponiamo che l'Idea sia qui il legame tra la melanconia amorosa, il genio del luogo e la morte. Visconti realizza la Visitazione di questa Idea nella breccia che una musica apre nel visibile, abbandonando la prosa, poiché lì non è detto nulla, e nulla è testuale. Il movimento sottrae il romanzesco alla lingua, e lo trattiene in un margine mobile tra la musica ed il luogo. Ma a loro volta, musica e luogo cambiano i loro propri valori, in modo che la musica è annullata per delle allusioni pittoriche, mentre ogni stabilità pittorica si discioglie nella musica. Queste traslazioni e dissoluzioni sono ciò che, alla fine, costituirà tutta la realtà del passaggio dell'Idea.

Si potrebbe chiamare "poetica del cinema" lo snodo delle tre accezioni del termine "movimento", il cui effetto consiste nella visita del sensibile da parte dell'Idea. Insisto sul fatto che essa non si incarna. Il cinema smentisce la tesi classica, secondo cui l'arte è la forma sensibile dell'Idea. Perché la visita del sensibile da parte dell'Idea non le conferisce alcun corpo. L'Idea non è separabile, nel cinema esiste solo nel suo passaggio. L'Idea è visitazione.

Facciamo un esempio. Che succede in Falso movimento quando il protagonista legge infine il suo poema? Se ci si riferisce al movimento globale, si potrebbe dire che questa lettura è una cesura rispetto ai percorsi anarchici, all'errare di tutto il gruppo. Il poema è posto come idea di poema tramite un effetto di margine, un'interruzione. Così viene trasmessa l'idea che ogni poema è una interruzione della lingua, conosciuta come semplice strumento di comunicazione. Il poema ingabbia la lingua in se stessa, considerato che la lingua qui è rappresentata filmicamente come la corsa, la ricerca, una sorta di stravolto ansito. Se ci si riferisce al movimento locale, si dirà che la visibilità del lettore, il suo proprio sgomento, lo mostra in preda al suo annullamento nel testo, nella cosa anonima che quello diviene. Poema e poeta si sopprimono reciprocamente. Ciò che resta è una specie di stupore d'esistere, stupore d'esistere che è forse il vero soggetto del film. Considerando il movimento impuro delle arti, si vedrà che in realtà la poetica espressa dal film è lo sradicamento da sé del poetico che è sotteso al poema. Perché l'essenziale è che un attore, anch'egli contaminazione impura del tipo romanzesco, legge un poema che non è un poema, per far sì che avanzi il passaggio di tutt'altra idea, cioè che questo personaggio non potrà, non potrà mai, nonostante il suo disperato desiderio, legarsi agli altri, dare una stabilità al suo essere grazie agli altri. Lo stupore di esistere nel primo Wenders, prima degli angeli per dirla così, è l'elemento solipsista, il fatto, che nasce da lontano, che un tedesco non possa stare insieme ed accordarsi ad altri tedeschi in tutta tranquillità, per quanto si possa parlare oggi, in termini politici chiari, di un essere tedeschi in quanto tale. La poetica del film è, nell'intreccio dei tre movimenti, il passaggio di un idea per nulla semplice. Al cinema, come in Platone, le vere idee sono frutto di commistioni, e ogni tentativo di univocità affoga le poetiche. Nel nostro esempio, questa lettura del poema fa apparire, o trascorrere, l'idea di un nesso d'idee: c'è un luogo definito dal poema, dallo stupore di esistere e dall'incertezza nazionale che è esclusivamente tedesco. È questa l'idea che pervade la sequenza. E per rendere al pensiero la complessità e la plurivocità di quest'idea, occorre il nesso di tre movimenti: il movimento globale, per cui l'idea non è altro che il suo trascorrere, il movimento locale, per cui essa è altro da ciò che è, altro dalla sua immagine, e il movimento impuro, per cui si situa nelle frontiere mobili di possibili immaginari artistici non frequentati.

E come la poesia è un artificio, una manipolazione codificata, che ingabbia la lingua, il raccordo di movimenti che costituiscono la poetica del cinema è un falso movimento.

Il movimento globale è falso, per via che nessuna misura gli è propria. La struttura tecnica regola un flusso discreto e uniforme, di cui è segno d'arte non tenerne conto. Le unità di montaggio, come i piani o le sequenze, sono composte non secondo la scansione temporale, ma secondo un principio di vicinanza, di memoria, di insistenza o di rottura, che danno più una topologia che un movimento. Il falso movimento, per cui l'Idea non è data se non come passaggio, si impone filtrato da questo spazio di composizione, tratteggiato dal filmare. Diremo che c'è un'Idea perché c'è uno spazio di composizione, e che c'è passaggio perché questo spazio si sposta, o si mostra, come tempo globale. Così, in Falso movimento, la sequenza dei treni che si sfiorano e si allontanano è una metonimia di tutto lo spazio di composizione. Il suo movimento è la pura esposizione di un contesto in cui la prossimità soggettiva e l'allontanamento sono indiscernibili, che poi è l'Idea dell'amore in Wenders. Il movimento globale non è che la distensione pseudo - narrativa di questo contesto.

Il movimento locale è falso, perché non è che l'effetto della sottrazione dell'immagine, come del dire, a se stesso. Non c'é qui nemmeno movimento originario, movimento in sé. Si ha una visione forzata, che non essendo riproduzione di nulla - affermiamo en passant che il cinema è la meno mimetica delle arti -, crea un effetto temporale di attraversamento e diffusione, per cui il visibile è attestato in qualche modo "al di là dell'immagine", del pensiero. Penso per esempio alla sequenza di L'infernale Quinlan (The touch of Evil), di Welles, dove il corpulento poliziotto crepuscolare rende visita a Marlene Dietrich. Il tempo locale è indotto dalla vera visita che proprio Welles rende a Marlene Dietrich, la cui idea non ha nessuna coincidenza con l'immagine manifesta, che dovrebbe essere quella di un poliziotto che va a casa di una anziana prostituta. Così che la lentezza quasi cerimoniosa dell'incontro promana dal fatto che l'immagine che appare deve essere percorsa dal pensiero che, per un'inversione di valori nella finzione, si tratti proprio di Marlene Dietrich e di Orson Welles, non di un poliziotto e di una puttana. Da ciò l'immagine è strappata a se stessa e ridata alla realtà del cinema. Qui, del resto, il movimento locale si dirige verso il movimento impuro, perché l'idea, propria della generazione ultima di artisti, si pone al confine tra cinema come film e come rappresentazione e come arte, al confine tra il cinema e se stesso, tra il cinema come effettività e il cinema come cosa del passato.

Infine, il movimento impuro è il più falso di tutti, perché non esiste in realtà nessuna maniera di produrre un movimento da un'arte ad un'altra. Le arti sono chiuse. Nessun dipinto di trasformerà in musica, nessun balletto in poema. Ogni tentativo diretto in questo senso è vano. Eppure, il cinema è l'organizzazione di questo movimento impossibile. Tuttavia, questa è ancora una volta una sottrazione. La citazione allusiva alle altre arti, costitutiva del cinema, le strappa a loro stesse, e ciò che resta è giustamente la breccia nella barriera di confine da cui è passata l'idea. Solo il cinema può assicurare tale visitazione.

Così il cinema, esistendo nei film, annoda tre falsi movimenti. Questa triplicità muove come puro passaggio la mescolanza, l'impurità ideale che ci colpisce.

Il cinema è un atto impuro. È propriamente il "più-uno" delle arti, parassita ed incostante. Ma la sua forza d'arte contemporanea è di produrre idee, il passare nel tempo, dall'impurità di ogni idea.

*(Il presente testo è una conferenza pronunciata da Alain Badiou il 29 novembre 1993 presso lo Studio delle Orsoline)
(trad. Aldo Pardi) - http://www.kainos.it/Pages/artic%20emer02.html

venerdì 2 novembre 2007

Massimo Donà e Vincenzo Vitiello - MARTEDI' 20 NOVEMBRE 2007 - FELTRINELLI MILANO - VIA MANZONI, ORE 18.00

Modera e introduce Luca Taddio (Mimesis Edizioni)

IL NUOVO SPAZIO PUBBLICO - VERSO UNA SOCIETÀ’ TRASPARENTE di PIERRE LEVY



All’interno delle culture prettamente orali, che hanno caratterizzato il 95% del tempo che la nostra specie ha trascorso su questo pianeta, la memoria umana era circoscritta alla capacità di ricordare dei gruppi di anziani. Gli strumenti, i gioielli, le statue, i monumenti di pietra e le immagini dipinte erano i soli supporti capaci di trasmettere i concetti astratti. Con la scrittura, apparsa in Mesopotamia 5000 anni fa, le conoscenze hanno cominciato ad essere registrate in maniera più efficace. Da allora lo spirito umano ebbe modo di guardare al passato non solamente utilizzando l’immaginazione, i miti e le tracce materiali. La nuova abbondanza di testimonianze linguistiche provenienti dai tempi antichi o da realtà culturali lontane, permise di mettere in prospettiva le conoscenze legate al presente, così come i progetti legati al futuro. I registri, i quadri, i testi, i discorsi, che erano diventati oramai abbastanza usuali, abituarono lo spirito umano ad utilizzare uno sguardo analitico, logico, critico e comparativo nei confronti della realtà.
Allora, però, anche se la società intera fu trasformata dall’avvento della scrittura, solo gli scriba erano in grado di utilizzare tale strumento. I primi documenti scritti furono conservati nei templi e nei palazzi, si trattava perlopiù di strumenti gestionali (amministrazione di grandi organi) e di dominio (registri fiscali, corvée, tributi) nelle mani di pochi, ovvero essi erano riservati ai sacerdoti ed ai funzionari regi. Gli scriba, quindi, venivano a contatto con i nuovi ambiti dello spirito come la teologia, la scienza e la storia. La scrittura aprì all’umanità un ampio spazio dello scibile che affondava le sue radici lontano nel tempo. Nello stesso momento, però, essa racchiudeva un cerchio di informazioni segrete, occulte, accessibili solo ai privilegiati della casta statale, sacerdotale o nobiliare.
Con l’invenzione dell’alfabeto, la scrittura divenne fruibile più ampiamente. Redatte in caratteri alfabetici già a partire dal VI secolo a.C., le leggi delle città greche diventarono leggibili da tutti, di conseguenza venne introdotto il concetto di pratica della cittadinanza. Si potrà obiettare che la città greca escludesse le donne, gli stranieri e gli schiavi, ma bisogna dire che la civiltà dell’alfabeto ha anche inventato il concetto di libertà in generale, e di libero cittadino in particolare, senza il quale non avremmo parametri di giudizio. Noi siamo loro eredi: non ammiriamo tanto i Greci perché hanno abolito la schiavitù, importantissimo traguardo storico e umano raggiunto solo dalla civiltà della stampa, quanto perché hanno fatto della libertà – contrapposta alla schiavitù – uno dei loro supremi valori. Ciò è ancora più significativo se pensiamo che nelle civiltà classiche dell’Egitto, della Mesopotamia e della Cina, per non parlare del sistema delle caste in India, esistevano diverse forme di soggezione.
Le religioni monoteiste, come le spiritualità platoniche, stoiche e buddiste, sono fondate su testi alfabetici. Il loro supporto alfabetico non è slegato dal loro carattere universale e dalla loro proclamazione di uguaglianza tra tutti gli animi. Le realtà che hanno fatto proprio l’alfabeto – giudaismo, cristianesimo, islam, stoicismo e buddismo – hanno tutte messo al centro della condizione umana il libero arbitrio o la libertà dello spirito. Ricordiamo che lo stoicismo – poco conosciuto oggi – è apparso nel terzo secolo a.C., ha impregnato l’universo ellenistico e romano ed ha influenzato profondamente il cristianesimo e la filosofia occidentale successiva. La sua etica di libertà interiore, di attenzione al momento presente e di accettazione del concetto di necessità possiede molti tratti paragonabili a quelli delle filosofie chiamate «orientali».
La filosofia, così come la conoscenza scientifica a respiro universale – la geometria dimostrativa, per esempio – sono legate nella stessa misura alla comunicazione legata ad un alfabeto. Questi saperi universali sono indipendenti da ogni tradizione culturale particolare. Il mondo dei concetti astratti e delle conoscenze universali è, di principio, aperto a tutti coloro che vogliono fare lo sforzo di accedervi, si tratta infatti di un’élite democratica. La retorica, arte della comunicazione e base della comunicazione “liberale”, fiorì tra quella rete di città commerciali che erano le brillanti civiltà urbane greche, ellenistiche, romane e arabe. Fu lo spirito ed il sapere di questi imperi dell’alfabeto che inonderà l’Europa durante il Rinascimento.
La stampa, rendendo i testi, i dati numerici, i disegni e le mappe più disponibili e più precisi, fornì uno dei presupposti alla rivoluzione della scienza sperimentale compiuta nell’Europa moderna. Essa giocò un ruolo fondamentale nella costituzione della repubblica delle lettere dell’Europa rinascimentale, strutturata dalle accademie e delle riviste scientifiche. Quest’élite intellettuale costituisce la prima “comunità virtuale” deterritorializzata che funzionava quasi in tempo reale. La nuova disponibilità di libri e la comparsa della stampa diedero luogo ad un’immensa apertura dello spirito. Grazie al nuovo mezzo di comunicazione, gli Europei furono esposti ad una varietà di informazioni senza precedenti, una varietà di idee e di immagini. Il concetto più caro agli Illuministi, cioè la speranza di un’emancipazione dell’umanità legata al progresso delle conoscenze, alla loro diffusione crescente, come alla pratica della tolleranza e del dialogo, risale a quest’epoca. Sul piano religioso, la stampa fu uno dei presupposti della Riforma e della comparsa dei credo che sono alla base di movimenti politici e sociali degli ultimi tre secoli (liberalismo, socialismo... ).
Nei secoli che seguirono l’invenzione della stampa non circolarono solo le notizie politiche e militari o le rivendicazioni sociali, ma anche le immagini riprese dai telescopi, dai microscopi e dalle macchine fotografiche. I campi del percettibile, del memorabile e del pensabile hanno potuto godere della possibilità di essere conservati. Sul piano politico, che è ciò che qui ci interessa di più, è chiaro che l’opinione pubblica, fondamento delle grandi democrazie moderne, non si sarebbe formata senza lo sviluppo dei giornali e dunque senza la stampa. Le grandi idee liberali e democratiche del XVII e XVIII secolo, come le Rivoluzioni americana e francese, si sono basate sulla comunicazione stampata. I periodi di rivoluzione e creazione politica in Europa, 1968 incluso, sono sempre stati accompagnati da un’esuberante moltiplicazione di giornali e pubblicazioni di ogni sorta.
Capiamoci bene: non voglio sostenere che ogni nuova preponderanza di un mezzo di comunicazione determini automaticamente il regime politico corrispondente, ma che alcuni cambiamenti politici non sono possibili – e nemmeno pensabili – senza l’esistenza di un media appropriato. D’altro canto, credo che i regimi politici arcaici non possano sopravvivere a lungo se una porzione significativa della popolazione che assoggettano accede a nuovi mezzi di comunicazione. Il terrore che hanno le dittature nei confronti della libertà di stampa, delle radio, delle televisioni satellitari e di Internet è perfettamente giustificabile.
La stampa, la fotografia, il cinema, il telefono, la radio e la televisione, accompagnati dallo sviluppo dell’istruzione pubblica e dalla facilità di spostamento degli ultimi due secoli, hanno reso il mondo più visibile, più ascoltabile, più accessibile, più trasparente. L’ampliamento della «sfera pubblica», cioè di uno spazio condiviso di visibilità e comunicazione collettiva ha definito in un colpo solo il suo complementare: la sfera privata e riservata dell’individuo o della famiglia. Gli anglofoni parlano di privacy, ma potremmo parlare di opacità. Il segreto d’affari, il segreto di Stato, il segreto militare (“classified”), il segreto del confessionale, dell’alcova o il segreto medico sono conservati in luoghi chiusi, opachi, refrattari alla comunicazione. Lo schiudersi del cyberspazio non fa che proseguire il movimento plurisecolare dell’aumento di visibilità e trasparenza. In ambito scientifico, le tecniche di visualizzazione hanno un’importanza sempre crescente: schemi, mappe, foto, film, simulazioni interattive appartengono sempre più all’attività quotidiana dei ricercatori. Le immagini traducono e semplificano la percezione dei numerosi dati e sono sempre più create ed elaborate al computer. La manipolazione dei modelli visivi di fenomeni complessi (un’interazione tra molecole per esempio) si fa strada tra i metodi teorici ed astratti. La “visione diretta” delle rielaborazioni informatiche è diventata una pratica - ed un principio epistemologico - sempre più legittima, anche se sappiamo che tutte le immagini sono costruite, comprese le immagini prodotte dal nostro cervello. I giochi contemporanei, i videogiochi e i giochi di ruolo virtuali a più partecipanti, sempre più popolari su Internet, testimoniano questo nuovo modo di apprendere la realtà con il quale le nuove generazioni hanno sempre maggior dimestichezza.
Il cyberspazio ci permette di osservare in maniera sempre più diretta quasi tutto ciò che vogliamo vedere, e questa tendenza sarà sicuramente in aumento nel futuro. Vi è ormai una sempre maggior diffusione di webcam che ci permettono di guardare liberamente quel che più ci interessa. Esistono strumenti sempre più sofisticati con i quali possiamo vedere in tempo reale i fondali marini, lo stato dell’atmosfera, le galassie ai confini dell’universo, la forma precisa delle molecole, l’interno del nostro corpo e tutto ciò che si può visualizzare. Il cyberspazio diventa quindi anche una rete dove si captano informazioni “esterne”, il mondo fisico, ed “interne”, la società e l’immaginazione umana: una rete sempre più vasta e più variegata. Questo mondo di cacciatori di immagini è associato ai processi di visualizzazione e diffusione che rispondono in maniera sempre più facile al desiderio di sapere legato ad Internet. Ogni giorno vengono realizzati nuovi sistemi di simulazione sempre più realisti e divertenti che ci permettono di esplorare in maniera facile tutte le evoluzioni dei sistemi complessi di ogni natura, comprese le società umane. Da un sistema mediatico dominato dalla televisione, stiamo passando ad un sistema di comunicazione che ci permetterà l’onnivisione: potremo dirigere il nostro sguardo ovunque nello spazio, su ogni scala di grandezza, in ogni disciplina, nel tempo e nel mondo virtuali, fittizi, ma sperimentabili che saranno sicuramente in aumento. La nuova conoscenza attraverso la “visione diretta”, non ci assicura il sapere obiettivo di una realtà finita, ma piuttosto il fatto di continuare a scoprire nuove dimensioni di una natura virtualmente infinita. Man mano che gli strumenti di osservazione e simulazione si perfezionano, la possibilità d’azione aumenta, così come aumentano i rischi e il peso delle responsabilità che corrisponde a questa potenziale nuova realtà. La sfera del reale si dilata allo stesso ritmo rispetto a quello dello spirito.
Quasi tutte le riviste scientifiche, le migliori enciclopedie, le informazioni legali e amministrative dei paesi avanzati, le radio, i giornali di ogni sorta e nazionalità e presto anche le televisioni sono già disponibili sul Web, senza contare le numerose testate di informazione che esistono solo sul Web. Ora, queste informazioni sono accessibili da qualsiasi punto della rete e solitamente sono gratuite o poco costose. In materia di trasparenza e di accesso alle informazioni, questo traguardo è ben superiore a tutto ciò che l’umanità ha conosciuto finora. Non si tratta solamente di una differenza nell’intensità del fenomeno, ma di un vero e proprio cambiamento nella natura dello spazio di comunicazione, di un salto dell’intelligenza collettiva.
Ogni segno prodotto dall’umanità, tende a raggiungere la sfera di una visibilità universale nel cyberspazio. Questo nuovo ordine rimette radicalmente in questione una cultura fondata sulla rottura tra pubblico e privato, come del resto quella tra realtà e illusione. Dobbiamo sottolineare, però, che le società cosiddette “primitive” non conoscono queste divisioni create dalla civiltà della stampa. Nelle tribù dei primitivi la nozione di vita “privata” non aveva senso e le visioni di sogno o di viaggio sciamanico avevano altrettanta importanza rispetto alla sfera contingente. Certamente le iniziazioni aprivano le porte verso dei labirinti interiori insospettabili per un profano. Esisteva quindi un ambito del nascosto; non è forse lo stesso oggi? Nel momento in cui tutto il sapere è accessibile sono solo la forza del dubbio e la pazienza dello studio a costituire le nuove formule magiche.
Sul piano politico, a cui siamo più strettamente interessati qui, c’è da prevedere che la società umana, il suo flusso demografico, economico, di informazione, le sue comunità, i suoi interessi divergenti, le sue passioni, le sue idee, i suoi dibattiti, i suoi contenuti contraddittori, le sue sovrapposizioni di potere, le sue sofferenze e la sua intelligenza collettiva, saranno sempre meglio conosciute, catalogate in tempo reale e trasparenti per tutti. La scrittura era stata a fondamento delle gerarchie e del segreto di Stato, l’alfabeto della città antica e della libera cittadinanza, la stampa dell’opinione pubblica, dell’idea di diritto dell’uomo e della democrazia; allo stesso modo, l’onnivisione o la trasparenza digitale, diverrà fondamento di una cyberdemocrazia ancora difficile da immaginare.
Sicuramente le istituzioni degli Stati forti, come la National Security Agency (NASA) americana, captano ed analizzano con potenti mezzi informatici tutto ciò che circola su Internet. Si è scoperto recentemente che la NASA, in cooperazione con i servizi segreti inglesi, canadesi, australiani e neozelandesi, controllava tutte le comunicazioni mondiali comprese quelle statali e quelle delle grandi imprese europee.
Bisogna sottolineare che il tema della difesa della «privacy» su Internet, minacciato anche dagli strumenti di polizia e di Stato, come dalle operazioni di marketing personalizzato del commercio online, è dibattuto in molte riviste e forum virtuali.
Dobbiamo temere forse un nuovo totalitarismo? Rispondo categoricamente di no: la trasparenza generalizzata verso la quale ci stiamo dirigendo tende a divenire simmetrica. La libertà d’espressione e l’accesso alle informazioni aumenta in tutto il mondo e non solamente per gli organi statali o per le imprese. In termini di comunicazione, il potere autoritario infatti si definisce per l’assimetria della visibilità: i domini sono trasparenti, mentre il centro del potere resta fosco. Allo stesso modo, il totalitarismo si caratterizza dal carattere verticale e unidirezionale del flusso d’informazioni:
- le comunicazioni orizzontali, trasversali e libere sono vietate;
- le informazioni arrivano dalla popolazione, gli ordini e la propaganda scendono dal potere.
Si può notare che il tipo di comunicazione che il cyberspazio rende possibile è l’esatto contrario di questo modello.
Non è forse vero, però, che il potere di solito vorrebbe rimane nascosto? Pensare questo significa confondere il potere nell’era dell’intelligenza collettiva con il vecchio potere di tipo mafioso che è prevalso sulla maggioranza della Terra fino ai nostri giorni e i quali totalitarismi e dittature del XX secolo ci hanno dato il peggior esempio. Oggi le istituzioni politiche più forti del mondo, cioè il Congresso e il governo americani, per esempio, sono anche le più trasparenti sul Web. Se abbiamo la pazienza di cercare, possiamo trovare tutto sulle multinazionali che dominano il mercato... e agire di conseguenza. Quindi le due maggiori potenze mondiali, cioè il governo americano e le multinazionali, sono anche le più trasparenti. Esse lo sono in un certo senso «per natura» poiché la democrazia e la libertà di stampa sono ben radicate negli Stati Uniti, e allo stesso tempo le grandi società hanno bisogno di comunicare con i loro azionisti, i loro clienti, i loro impiegati in un sistema di scambi sempre più trasparente (la Borsa, il mercato, i media...). Scopriamo qui che la potenza è associata alla trasparenza, così come il potere all’opacità. Non vi è nulla di logico in questo risultato, dato che l’opacità lascia spazio a comportamenti egoisti, non etici, abusivi, menzogneri, illegali, che non favoriscono certo lo spirito di cooperazione, di aiuto reciproco e di condivisione del sapere che è alla base di un’efficace intelligenza collettiva. La corsa verso la potenza è quindi anche la corsa verso la trasparenza.
Il parallelo propagare della pornografia e delle esigenze morali trovano il loro punto di partenza da un unico principio che trascende le distinzioni tra bene e male: bisogna guardare tutto. Parlo di esigenza morale perché la trasparenza è anche sinonimo di «lotta contro la corruzione». Per la natura umana così com’è sempre stata, la visibilità sembra favorire l’onestà, così come i video di sorveglianza nei luoghi pubblici dissuadono dalla delinquenza. Gli scandali sessuali e finanziari che colpiscono il mondo politico ormai da diversi anni in più paesi democratici, l’accanimento dei giudici, dei giornalisti e degli oppositori che si appigliano ad ogni minimo errore o gaffe dei dirigenti, non sono solamente segno della défaillance morale dell’élite politica, ma anche dell’aumento della volontà umana di praticare sempre più una trasparenza democratica. Questa trasparenza è indissociabile dalla libertà di stampa e dall’indipendenza della giustizia. Gli uomini politici sono probabilmente meno corrotti oggi che in passato, ma questa corruzione è più visibile. Tutto questo non avviene purtroppo in Cina, Siria o in Birmania dove i capi politici di dubbia moralità non sono certamente perseguiti, né dal potere giudiziario, né dai giornalisti, né dal popolo.
La libertà è maggiormente garantita dalla luce che dall’ombra, la trasparenza permessa dagli strumenti del cyberspazio, a condizione che essa rimanga simmetrica ovviamente, ci sembra sintomo non solo del cambiamento della democrazia moderna alla cyberdemocrazia, ma anche della prossima caduta delle dittature. Il loro modo di agire infatti è sempre meglio conosciuto e provoca solo povertà, guerra ed esodo delle popolazioni. Quale dittatura potrebbe sopravvivere in un paese dove risiede il 25% degli utenti di Internet?

di PIERRE LEVY (tratto da CYBERDEMOCRAZIA - SAGGIO DI FILOSOFIA POLITICA. A cura di Giuseppe Bianco. Mimesis Edizioni di prossima pubblicazione)